Antica leggenda dell’appennino bolognese
Tanti secoli fa l’abitato di Sasso era assai diverso da quello attuale. Ove ora sorgono palazzi e ville, un tempo erano soltanto campi ed orti tagliati marginalmente dall’antica via dei monti che, partendo dalla città, si snodava tra i boschi verso l’alto Appennino bolognese.
Posto ai margini di questa arteria medievale ed arroccato su di una modesta altura, sorgeva allora un arcigno castello munito di torri e cinto di solide mura che costituiva asilo sicuro a quelle popolazioni durante le frequenti incursioni dei feudatari vicini o dei fuorusciti che numerosi battevano a quei tempi la montagna bolognese.
Più in basso, quasi a ridosso delle mura castellane, era sorto l’antico « borgo medievale », un agglomerato cioè di povere casupole dai tetti di paglia che servivano di abitazione ai rari artigiani ed a numerosi servi della gleba addetti al lavoro dei campi.
Castello e Borgo costituivano allora il centro di un grosso feudo che, per essere di pertinenza dei vescovi di Bologna, era allora conosciuto col nome di Castel del Vescovo.
All’epoca cui si riferisce la nostra leggenda, la montagna era da poco tempo uscita da un periodo di lotte fratricide che ne avevano insanguinato le contrade, seminando distruzione e morte un po’ ovunque. Anche il feudo vescovile era stato duramente colpito ed ora la vita, sia pur assai lentamente, andava riprendendo il suo corso abituale mentre le popolazioni, deposta la spada, si accingevano a riprendere il consueto lavoro.
La serenità e la pace sembravano ritornare su queste contrade quando una grigia sera d’autunno avvenne ciò che per poco non gettò nuovamente nella costernazione e nello sgomento quelle povere popolazioni.
Da qualche tempo i rari viandanti che, scendendo dalle montagne vicine, giungevano in paese, andavano riportando paurosi episodi di misteriose apparizioni e c’era tra di loro chi giurava d’aver visto un demone gigantesco dall’aspetto terrificante aggirarsi nelle contrade vicine cercando anime dannate e seminando ovunque desolazione e morte. A quei paurosi racconti, i semplici abitanti del luogo rimanevano sulle prime ìnterdetti, indi se ne andavano facendosi furtivamente il segno della croce e mormorando in cuor loro qualche pia invocazione.
Passarono così alcune settimane, quando una sera, verso l’imbrunire apparvero improvvisamente in cielo grosse nubi nere che sferzate da un vento gelido andarono man mano addensandosì fino ad oscurare quasi completamente la luce del sole morente.
All’improvviso, contro il cielo livido, balenò un lampo accecante mentre un sordo boato scoteva la terra dalle fondamenta gettando nello sgomento quelle semplici popolazioni.
Come presentendo un imminente pericolo, ciascuno si era affrettato alla propria abitazione, e, sprangata la porta, se ne stava in silenzio ascoltando il pauroso fragore dei lampi che si facevano sempre più vicini mentre una pioggia fitta ed insistente batteva con rabbia contro le pareti delle misere casupole.
Allora tornarono alla mente di quei semplici montanari i racconti ascoltati giorni prima dalla viva voce dei viandanti ed istintivamente molti caddero in ginocchio mentre le labbra sì schiudevano in una invocazone di supplica.
Quanto era accaduto ai paesi vicini stava forse per ripetersi ora nel loro piccolo borgo. Infatti, stando alla leggenda, un demone gigantesco stava aggirandosi a quell’ora nei dintorni del castello e del piccolo agglomerato. Emettendo urla paurose percorreva tutt’intorno le solide mura del maniero cercando inutilmente un varco attraverso cui introdursi; invano tentò di abbattere le pesanti porte d’ingresso ben sprangate dall’interno.
Alfine, emettendo urla più simili al ruggito di una belva, salì sulla cima di un colle vicino allora conosciuto col nome di Sasso di Glossina; raccogliendo tutte le sue forze spiccò un balzo gigantesco nel tentativo di entrare nella cinta del castello.
Librato in aria, già stava per piombare all’interno dell’abitato, quando all’improvviso nel cielo cupo della notte apparve una luce abbagliante al centro della quale fu vista distintamente la bianca immagine della Vergine nell’atto di respingere la paurosa creatura infernale. Questa rimase per alcuni attimi librata a mezz’aria indi, emettendo un ultimo grido agghiacciante, cadde riversa ai piedi della collina.
All’alba, quando gli abitanti, usciti timidamente dalle loro abitazioni, giunsero ai piedi della rupe, notarono con stupore un’enorme impronta lasciata sul terreno dalla creatura infernale e dove prima erano campi e vigne non rimaneva ora che una larga spaccatura attraverso cui scorreva un rivolo d’acqua livida e limacciosa.
Da allora quella fenditura venne denominata il « Fosso del diavolo » e, a perenne ricordo della salvezza ottenuta, sul luogo venne in seguito eretta una piccola stele in onore di Colei che ancora una volta aveva dimostrato di essere veramente più potente delle forze infernali.
Tratto dal libro di Augusto Martelli
“Mongardino storia e leggenda nell’appennino bolognese”