Tratto dal semestrale n.11 “al sâs” del Gruppo di Studi “Progetto 10 Righe”
a cura di Pierluigi Perazzini
Che il più lontano passato di Sasso Marconi sia avvolto nel mistero non vi sono dubbi. Enigma alimentato anche da leggende e antiche storie avvalorate da frequenti ritrovamenti archeologici che testimoniano una costante presenza dell’uomo da tempi antichi. Sappiamo che questo territorio è stato frequentato fin dal paleolitico ed è certa una sua colonizzazione etrusca e poi romana; abbiamo invece pochi elementi per conoscere l’evoluzione del territorio di Sasso Marconi dopo la caduta dell’Impero Romano e nel più lontano Medioevo. Dal buio dei secoli emergono leggende e racconti fantastici che ci parlano di città, come quella di Carena, o di forti castelli, come quello di Ferrone, mentre i pochi documenti conosciuti invece di fornirci risposte, aggiungono nuovi e più complessi interrogativi.
Della tradizione di Carena, la città scomparsa che avrebbe fatto da gestante a Bologna, mi sono già occupato in altra occasione (nota 1), mentre su Castel Ferrone sto raccogliendo documentazione. Questa volta voglio invece parlarvi della fantomatica “corte di Nucifatico” e di Castel del Vescovo.
Nucifatico
È risaputo che l’odierno comune di Sasso Marconi prende origine dall’accorpamento, avvenuto in epoca napoleonica, di diverse comunità che erano autonome sebbene dipendenti dal governo della città di Bologna. E altresì noto che gran parte del territorio, che oggi costituisce il capoluogo, fino all’Ottocento era chiamato Castel del Vescovo (Fig. 1), comunità divisa fin dall’antichità in due distinte parrocchie, San Pietro e San Lorenzo (nota 2). La chiesa di San Pietro (Fig. 2), anche se non più destinata al culto, esiste ancora, così come quella di S. Lorenzo (Fig. 3) che invece svolge tuttora la sua funzione parrocchiale. Il nome di Castel del Vescovo dato a questo territorio (Castrum Episcopi nelle antiche carte), prende origine dall’essere stato possesso del Vescovo di Bologna da tempo immemorabile, anche se nei documenti che conosciamo appare così nominato per la prima volta in un diploma dell’imperatore Federico II dell’anno 1220; non è conosciuto invece quale fosse il nome di questo territorio prima di essere assoggettato al vescovo di Bologna.
Secondo Luigi Casini (nota 3), uno storico che ha lungamente studiato l’organizzazione del territorio bolognese dal tardo medioevo all’età moderna, il territorio di Castel del Vescovo corrisponderebbe all’antica, e scomparsa, corte di Nucifatico (nota 4). Questo nome, che rimanda a tempi assai lontani, appare per la prima volta in una pergamena del XI secolo, e più esattamente in una bolla datata 23 marzo 1074 con la quale papa Gregorio VII concede alla Chiesa bolognese diversi possedimenti della Santa Sede, e tra quelli il monastero di S. Pietro con la corte (nota 5) chiamata Nucifatico e le sue pertinenze (monasterium Sancti Petri cum curte que vocatur Nucifatico cum omnibus suis rebus); concessione confermata poi da papa Pasquale II nel 1114, da papa Lucio II nel 1144 e ancora da papa Alessandro III nel 1169. La massa (nota 6) di Nucifatico figura anche tra i beni concessi in enfiteusi perpetua il 2 luglio 1187 da papa Urbano III al vescovo bolognese Gerardo di Gisla (nota 7).
L’ipotesi del Casini non è suffragata da prove documentali, ma probabilmente lo studioso era arrivato a sostenerla sulla base della considerazione che la corte di Nucifatico figurava nel privilegio concesso da Alessandro III alla Chiesa di Bologna e nei brevi precedenti, ma, stranamente, non appare più nel diploma del 1220, dove viene invece nominato Castel del Vescovo con la sua corte (nota 8), comunità che ha essa pure una chiesa intitolata a San Pietro (nota 9).
Paola Foschi, una storica che si è occupata in varie occasioni delle proprietà vescovili del territorio bolognese nel medioevo (nota 10), ha studiato e analizzato anche i possessi del Vescovo e della Chiesa bolognese a Sasso con una particolare attenzione anche all’ipotesi formulata dal Casini. In tale ottica ha metodicamente controllato la toponomastica attuale e quella riportata negli estimi del 1315 alla ricerca di qualche traccia di Nucifatico, però senza alcun riscontro (nota 11).
L’indagine della Foschi ha comunque confermato la presenza di una fortificazione, rocca o castello, presso la chiesa di S. Pietro (Fig. 4), e di un borgo, cioè di un abitato accentrato ed esterno alla fortificazione e grosso modo corrispondente all’attuale centro di Sasso Marconi, ma anche di una villa, cioè di un abitato sparso e privo di fortificazioni da localizzarsi nei dintorni della chiesa di S. Lorenzo e comunque sulla fertile piana alluvionale del Reno. Altro elemento emerso dai suoi studi è che nel 1315 la maggioranza degli abitanti di questo territorio pagava una decima al vescovo per almeno un terreno, e che la maggior parte delle case sorgeva su terreni appartenenti alla Chiesa bolognese (nota 12).
Nucifatico rimane quindi ancora avvolto nel mistero. Mancano elementi per confermare una sua sicura corrispondenza con Castel del Vescovo e se ne era l’antico nome;, tuttavia, almeno fino a quando qualche nuovo documento non confermerà questa ipotesi oppure ci indicherà una diversa ubicazione, non possiamo neppure escluderlo del tutto. Allo stato attuale l’unica cosa certa è che nel 1220 esisteva qui, e da un certo tempo, un Castello, del Vescovo di nome e di fatto, al quale l’imperatore Federico II (Fig. 5), come vedremo, riconobbe ampi privilegi.
Castel del Vescovo
I122 novembre 1220 a Roma, in San Pietro, Federico II di Svevia Hohenstaufen (nota 13) veniva solennemente incoronato imperatore del Sacro Romano Impero. Cherubino Ghirardacci nella sua storia di Bologna (nota 14) ci fa sapere che l’imperatore « havuta la benedittione del Papa, se ne uscì di Roma, et passò ad un luoco detto monte Malo (nota 15) vicino a Roma, dove fra molte ordinationi ivi da lui fatte, confirmò i privilegi à popoli, et particolarmente à gli Ambasciatori Bolognesi, che quivi erano venuti per honorare la sua coronatione, concesse tutte quelle giurisdittioni, che eglino havevano nelle cause civili, et criminali, ordinarie, et straordinarie nella creatione de’ Magistrati, et nelle altre rette, et giuste consuetudini, et possessioni havute, et ottenute ne’ tempi dell’Avo, et del Padre di detto Imperatore; le quali haveva la Città dentro, et nella Diocese. Con firmò poi ad Henrico Vescovo di Bologna (nota 16) le consuetudini, et giurisdittioni antiche, che egli potesse essercitare nelle sue castella … ».
Occorre precisare che i rapporti tra il Comune di Bologna e il Vescovo a quel tempo erano assai tesi in quanto il comune con mire espansionistiche cercava di imporre le sue leggi, le sue imposte e la sua giurisdizione anche ai possedimenti del vescovo, il quale invece rivendicava su quelli la propria sovranità, anche temporale. Ecco perché appena pochi giorni dopo la sua elezione i rappresentanti del Comune di Bologna e il Vescovo, indipendentemente gli uni dall’altro, ricorsero all’imperatore per rivendicare i propri diritti e farli da lui riconoscere e codificare. Il lungo diploma che Federico II emise a favore della Chiesa bolognese anche se non ci aiuta a chiarire il mistero di Nucifatico, ci permette di comprendere quali erano i privilegi e le giuridizioni di cui godeva il vescovo di Bologna, e quali prerogative gli erano riconosciute anche nel nostro “Castel del Vescovo”. Per questa motivo, ma anche perché è il più antico documento conosciuto dove si nomina espressamente la nostra comuni. là, lo trascrivo qui integralmente (nota 17):
«Nel nome della Santa, et individua Trinità Federico II per favore della Divina clemenza, Imperatore de’ Romani sempre Augusto, et glorioso Rè della Sicilia. Alla grandezza della Imperiale Maestà conviene mostrarsi et benigna, et commoda à i giusti desiderij de suoi servi fedeli, col piegare gli orecchi della sua Serenità alle humili preghiere di quei, i cui servigi commendano la lucida divotione, et preclara fede loro vie più di giorno in giorno, fra quali uno riputiamo essere il fedel Prencipe nostro Henrico Venerabile Vescovo di Bologna, poiche à noi sono certi, et manifesti gl’initij della sua lodata devotione.
Dunque per li preclari servigi, che à noi, et all’Impero intrepidamente hà fatto, et nello avvenire ancho speriamo faccia: Noi con Imperiale Maestà concediamo, et confirmiamo al medesimo Henrico Vescovo di Bologna, et alla Chiesa di Bologna, et à suoi successori in perpetuo i buoni usi, et le consuetudini, che la Chiesa insino al presente hà havuto, et tiene. Inoltre concediamo, diamo, et confirmiamo al detto Vescovo, et Chiesa, et à suoi successori piena giurisdittione in tutte le Castella, et luoghi del detto Vescovo, et della Chiesa di Bologna, et nominatamente del Castello di S. Gio. in Persiceto, sua Corte, et pertinentie; del Castello del Vescovo, et sua Corte; di monte Cavalloro, et sua Corte; del Castello di Unciola, et sua Corte; della Rocca di Badalo, et sua Corte; del Poggio di Massumatico; del Castello Dugliolo, et sua Corte; del Castello Fusco, et sua Corte; del Castello di Ozano, et sua Corte. Inoltre concediamo, et con firmiamo al detto Vescovo, et suoi successori la Terra di Cento libera, essente, et intera con sua Corte, et pertinentie, che egli la tenga, et possegga con ogni giurisdittione civile, et criminale, distretto, et honore, come al presente hà, tiene, et possiede liberamente essente; et si come gli suoi antecessori erano soliti havere, et tenere: di modo, che niuno, nè meno la Città di Bologna, ò quali si sia altra Città, ò Commune presuma di fare, imporre, ò riscuotere in essa fodro, ò colletta. Mà ben vogliamo, che il detto Vescovo di Bologna, et suoi successori habbino, et esercitino piena giurisdittione civile, et criminale in tutte le Castella, et luoghi predetti, terre, habitationi, et pertinentie loro: non ostante il Privilegio da noi al Comune di Bologna concesso; non havendo noi per quello inteso di levare, ò sminuire le ragioni della Chiesa di Bologna. Non ostante il privilegio del Serenissimo Federico Avo nostro invittissimo Imperatore de’ Romani concesso alle città della compagnia di Lombardia presso Costanza; né meno alli statuti del Commune di Bologna, concediamo al Vescovo, et alla Chiesa di Bologna il porto Laveratico, col portunatico, et i corsi delle acque, et gli alvei de’ fiumi in tutti i luoghi, et terre predette, et specialmente le regalie, le quali hà, et tiene nelle castella, et luoghi suoi, et nelle pertinentie loro, et sia lecito à lui, et à suoi successori trattare col mezo del Sindico tutte le cause della Chiesa di Bologna, senza dare il giuramento di calonnia; di modo, che un altro contra il Vescovo non possi far questo. Aggiungendo, che alla detta Chiesa di Bologna concediamo, che non se le possa prescrivere spatio di tempo alcuno da questa nostra concessione, et decreto, se non di anni cento. Et che le persone Ecclesiastiche della Diocesi di Bologna, et le Chiese godino, et fruischino piena libertà, et pace; cioè, che non seieno astrette ad angarie, ò altre opere, né à colletta, ò riscuotimento alcuno, sotto qual nome per alcuno nostro Nuntio, ò per altra persona laica maggiore, ò minore, ò per il Commune di Bologna, né sieno sforzati di giurare al Breve del Commune di Bologna, ò alla volontà del Pretore, ovvero di andare in cavalcata, ò in essercito, bisognando; ma che essi al servigio de i loro Signori attendino.
Di più ordiniamo, che il Giudice secolare non ardisca giudicare, ò disponere delle Chiese, et Cherici, et delle persone Ecclesiastiche della detta Diocese, se non quanto li sacri Canoni permettono. Ancora con Imperiale magnificenza, et autorità del nostro Privilegio confermiamo i Privilegi, le concessioni, et qual si voglia altra cosa, che i nostri Regi, Imperatori Romani, Sommi Pontefici, ò altra persona Ecclesiastica, ò secolare, ò Communità di terre alla Chiesa di Bologna, ò à suoi Vescovi hanno dato. Annullando, et cassando le alienationi, venditioni, et altre concessioni fatte da i precedessori del detto Vescovo delle cose della predetta Chiesa contra le legittime, et Canoniche ordinationi, et che segno in danno, et pregiudicio della Chiesa di Bologna. Concediamo anchora, et comandiamo, che il Pretore, et Commune di Bologna habbino nel loro distretto per banditi tutti quei, che il Vescovo di Bologna haver à banditi dalle sue terre, né prestino loro alcuno aiuto, mentre, che essi staranno in bando Episcopale. In somma noi riceviamo sotto la nostra protettione il detto Vescovo, et la Chiesa di Bologna, con tutte le sue pertinentie. Ordiniamo adunque, et con l’autorità nostra Imperiale comandiamo, che ninna persona alta, ò humile, Ecclesiastica, ò secolare, et niun Commune ardisca di violare questo Privilegio della nostra Maestà, ne presuma di contrariarli con alcune calonnie d’ingiuria, ò con occasione di danno di statuti, ò consuetudini della Città; et però ( chi lo farà ) in castigo della sua temerità, paghi dugento libbre d’oro puro, et la metà vada alla Camera nostra, et il restante al Vescovo, et Chiesa di Bologna. Et a sicura certezza nel tempo avenire habbiamo voluto, che la presente carta si scriva, et col Sigillo della nostra Maestà sia corroborato, et munito.
A questo Privilegio furono testimoni Bertoldo Aquileiense Patriarcha, Sigifredo Magontino Arcivescovo della Sede, et c. Il segno dell’Invittissimo Signor nostro Federico II. Imperatore de’ Romani sempre Augusto, et Rè di Sicilia. Io Corrado Spirense, et Vescovo di Metz, Cancelliere della Corte Imperiale in vece del Signor Engemberto Coloniense Arcivescovo, et Archicancellario di tutta Italia, l’ho riconosciuto. Furono attivate queste cose l’anno della Incarnatione del Signore MCCXX. imperando il Signor nostro glorioso Federico de’ Romani sempre Augusto, 1 anno L del suo Imperlo. Dato per mano di Henrico da Tanna Prothonotario Imperiale in monte Malo, presso Roma, alli 26. di Novembre. Inditione ottava» (nota 18).
Quindi l’imperatore non solo confermava al vescovo i suoi possessi, ma gli riconosceva anche ampia sovranità sugli stessi; tuttavia anche questo non bastò a sanare le controversie tra Vescovo e Comune. Infatti appena pochi giorni dopo l’emanazione del diploma successe che un abitante di Castel del Vescovo di nome Baiulano venne imprigionato per un omicidio commesso in Bologna.
Al vescovo la cosa non piacque affatto, e ritenendo «che fosse stata violata la sua giurisdizione, scomunicò la Città, et per questo concitò non picciolo sdegno ne gli animi de’ Cittadini; et commossa tutta la Città, il Pretore mandò Guicciardino iuriconsulto per accomodare quel disordine, a cui il Vescovo intrepidamente rispose; Che egli ribenedirebbe la Città, ogni volta, che il micidiale (nota 19) fosse condotto in quell’istesso luogo, dove era stato preso. La qual cosa essendo dal Pretore al Consiglio di Credenza riferito, di consenso di tutti, il Pretore, per provvedere ad ogni scandalo, et inconveniente, che di ciò potesse seguire, comandò, che il Giudice, et l’Estimatore del Commune di Bologna lasciassero libero quell’huomo, si come fù subito essequito; et incontinente Henrico liberò la Città dalla scommunicatione» (nota 20).
Questa pace però non doveva durare molto a lungo. Nuovo motivo di contrapposizione fu la riscossione delle decime in città, ma a far precipitare la situazione furono i fatti di S. Giovanni in Persiceto: anche in questo caso un delitto provocò l’intervento degli uomini del vescovo e di quelli del pretore di Bologna, che ben presto vennero a diverbio scatenando una controversia che richiese persino l’intervento del Papa «Di che sdegnato il Pretore Federico, con il consenso del Consiglio, assalì tutte le castella del Vescovo, cioè San Giovanni, Unciola, Massumatico, Poggio, Dugliolo, Castello del Vescovo, et altri luoghi. Et di più gli tolse il ripatico di Dugliolo, et creò nuovo Rettore all’Hospitale del nuovo Ponte di Rheno, levandone il vecchio Rettore, che dal Vescovo vi era stato posto, et comandò, che nessuno laico nelle castella del Vescovo essercitasse il Gastaldiato à nome del Vescovo, né si dessero à Cherici, secondo si costumava, nuncij à riscuotere le decime. Et per questa cagione Palmerio arbitro (nota 21) scommunicò Federico Pretore, Ognibene, Usberto Giudice, et tutta la corte loro, et di più i Consiglieri della Città, gli Antiani, i Maestri delle Arti, dell’Armi, et delle Vie; et il Vescovo interdisse la Città» (nota 22).
Naturalmente non finì lì. «L’anno seguente, che Raniero Zeni vinitiano fù Pretore di Bologna, alli 9. di Gennaro, il Pontefice scrisse à Gregorio Cardinale Vescovo di Preneste, et ad Othone Cardinale di San Nicolò in Carcere Tulliano Legati in Lombardia, che si adoprassero di persuadere à Rainiero Pretore, et al Commune di Bologna, che volessero restituire le castella al Vescovo loro, accioche non fosse forzato di provedervi più rigorosamente. Fecero li Cardinali quanto fù in poter loro, per effettuare la volontà del Papa, ma non fecero effetto; anzi il Pretore, col parere del Consiglio, pose nuovi Pretori in tutte le Castella, togliendole affatto la giurisdittione. Di che sdegnato il Pontefice, alli 3. di Giugno, comandò alli Vescovi di Spoleti, di Parma, et di Mantova, che scommunicassero Rainiero Pretore, Federico suo precessore, le lor corti, et tutta la Città di Bologna, et gli publicasse scommunicati per tutte le Città della Lombardia, della Romagna, della Marca, et della Toscana; et che comandassero à gli Scholari, che dalla città si partissero, né tornassero prima della festa di San Michele» (nota 23).
Possiamo immaginare che la vita degli abitanti di Castel del Vescovo risentisse negativamente di questo stato di cose: da un lato il Comune di Bologna che cercava di assoggettarli, politicamente ed economicamente, anche con la forza, dall’altro la Chiesa che lanciava anatemi e colpiva con scomuniche. Ma anche Bologna non era messa meglio, infatti un’infinità di grilli e cavallette invase e devastò il contado, e ciò che rimase venne distrutto da una terribile grandinata causando un’estrema carestia di ogni cosa. Il popolo cominciò a pensare che tutto ciò fosse la conseguenza dei contrasti col Vescovo e dell’interdetto che aveva privato i cittadini dei Sacramenti, come ci racconta ancora il Ghirardacci: «Era un gran bisbiglio nel popolo, per cagione dell’interdetto, et à ciacunó pareva cosa strana di vedersi privo de i Santi Sacrificij in tanta calamità. Il perche si cominciò à dubitare di qualche seditione, et però il Consiglio determinò di liberare la città da tanti travagli, et di sodisfare il Vescovo. Et accordatosi il Vescovo, et la città sopra le decime, fù consignato ad Henrico Cento, et la Pieve in luogo delle decime della Città, risalvando alla Città la giustizia temporale; et egli tosto rimosse l’interdetto, il quale era durato dieci mesi, et benedì il Pretore, et gli altri Magistrati, et ritornando à Bologna, fù ricevuto con grata accoglienza, et con allegrezza universale» (nota 24).
In quel tempo venne a Bologna un frate dell’ordine dei predicatori, Giovanni, originario di Vicenza, teologo e “uomo di santa vita”, che cominciò a predicare in città con tanto spirito e grande seguito. «Questo divotissimo Padre accomodò molte liti, et ottenne che si deponessero molti odii, et acquistando la gratia del Magistrato, aperte le carceri, liberò i prigioni, et pacificò gli debitori con li creditori, et commosse i cuori di tutti in modo tale, che tutti cominciarono à supplicare Iddio, et al fare santissime operationi, per placare l’ira divina … Et in somma tanto crebbe la àivotione della città verso quel servo di Dio, che ciascuno pareva, che in lui volontieri havesse risposta ogni sua speranza … Il Vescovo, et la Città misero nelle sue mani la causa, per la quale havevano frà di loro longo tempo conteso, sopra 1’esseguire la giurisdittione capitale nelle Castella di San Giovanni, di Unciola, di Dugliolo, del Castello del Vescovo, del Poggio, et di Massumatico, di Ozzano, di Fiesso, et di Monte Cavalloro, promettendo con giuramento starsene al suo arbitrio, sotto pena di mille dramme d’oro, et ciò alla presenza di Tancredo Archidiacono, et di Giacomo Balduini famosissimi Dottori di Legge; et per sigillo di tutto questo alli 14. di Maggio fra Giovanni, col parere del Vescovo, ordinò una generale processione, dove si ritrovarono tutti li Cittadini con molta pietà, et lacrime, et molti vi andarono à piedi nudi, la quale fù fatta con grandissima divotione, et con molte lacrime, per placare l’ira di Dio» (nota 25). II 22 giugno 1233 (nota 26) frate Giovanni, come ci racconta il Ghiradacci, «pronunciò in favore della Città contra il Vescovo nel Consiglio Generale, et Speciale, chiamati i Consoli degli Argentarij, ò Cambiatori, i Maestri delle Arti, et delle Armi, si come appare al Registro nuovo foglio 352 » (nota 27). Per sapere come frate Giovanni aveva risolto quella annosa questione possiamo fare a meno di consultare il registro indicato dal Ghirardacci e affidarci al commento e alla sintesi che ne fa Serafino Calindri:
«Pensò a tutto il buon Giovanni, e distese e pronunciò un laudo così sensato, che più desiderabile non poteasi da ottimo mediatore, da sapientissimo giudice, da Legale espertissimo, e da soprafino politico, non già contro il Vescovo come sognò il Ghirardacci, ma conforme richiedeva la giustizia dei diritti delle parti litiganti … Fra le cose adunque da Fra Giovanni nel suo plausibile Laudo pronunciate vi furono, che il Vescovo e la Chiesa, o Mensa, turbati non fossero nella giurisdizione sulle terre di S. Giovanni in Persiceto, di Massumatico, di Poggio Massumatico, di Dugliolo, di Anzola, e di Castel del Vescovo, che perciò ad esso Vescovo e suoi successori appartenesse la cognizione e definizione delle cause criminali e civili, escludendo però dalle criminali i maleficj di primo grado, e di alcune particolari qualità, la cognizione e definizione de’ quali spettar dovesse al Comune e suo Potestà, come ancora loro spettasse il giudizio di qualunque delitto abbenchè minimo, quando per via del luogo in cui fosse commesso, o delle persone, fosse di mista giurisdizione, e questo si dovesse altresì osservare nelle liti civili. Pronunciò inoltre, e decretò come arbitro, che ciascuno de’ suddetti Luoghi eleggesse a suo piacimento Podestà, Consoli, ed altri Ministri come era solito farsi in passato, e dassero però il giuramento usato nelle mani del Potestà di Bologna salvi i diritti del Vescovo. Decretò, che ognuno de’ suddetti sei Luoghi sostenesse e pagasse i pubblici pesi, e le imposizioni, come li altri tutti nel distretto del Territorio, e che in tempo di guerra somministrassero il prescritto numero di Soldati a cavallo, e di Soldati appiedi; che non dassero ricovero a banditi da Bologna, ne alcuno de’ suoi abitanti usasse armi proibite dallo statuto, ne le portasse; e finalmente che i pubblici Ministri di Bologna avessero libero accesso in ciascuno de’ Luoghi nominati a fine di poter invigilare contro le fraudi de Fornaj, degli Osti, e de’ Molinari. In Argile però, in Monte Cavalloro, in Fiesso, ed in Ozzano la Città godesse in perpetuo assoluta giurisdizione, salvi sempre in tutto il rimanente i diritti accordati alla Mensa Vescovile. E qualunque delle parti violasse le convenzioni pagasse all’altra due mila marche di argento, e dopo pagate, dovesse tanto stare a quanto nel Laudo veniva prescritto» (28).
Come facilmente prevedibile questo lodo non venne sempre rispettato dalle parti e non mancano episodi desunti dalle cronache e dai pubblici registri a dimostrazione di una convivenza difficile, ma la cosa più significativa era il fatto che oramai le prerogative feudali del vescovo si andavano sempre più ridimensionando mentre aumentava l’ingerenza del Comune di Bologna sul contado. Motivi di difesa militare, di salvaguardia di strade e fiumi, di approvvigionamento della città e dei suoi abitanti, ma anche di difesa delle proprietà rurali dei cittadini e di libero commercio resero necessario un sempre maggior controllo del territorio da parte della città. Ma di questo, e dei suoi riflessi, ne parleremo un’altra volta.