L’ otto settembre 1946 alle ore 15 circa, ero seduta sui primi gradini della scalinata che porta all’ingresso della grande villa denominata : “Villa Francia di Cadestellano”. Abitavo lì con la mia famiglia dal giorno 16 luglio 1945, cioè da quando dopo tre mesi dalla fine della guerra, abbiamo avuto il coraggio di ritornare in quei luoghi rovinati dal lungo conflitto. Quel giorno accanto a me sui gradini della grande villa, c’erano le mie bimbe Maddalena e Giovanna, mentre la mia terzogenita Raffaella la portavo in grembo, infatti la sua nascita avvenne nel novembre dello stesso anno. Io e le mie bambine indossavamo gli abiti della festa, eravamo pronte per andare al Palazzo Rossi alla Fiera di Pontecchio, un appuntamento atteso da un anno; eravamo lì zitte zitte, come di solito non succedeva mai quando eravamo insieme, ma anche se non parlavamo, sapevamo ugualmente che dentro ad ognuna di noi regnava il timore.
L’aria era fresca, il sole splendeva, non c’era una nuvola in cielo, ma noi temevamo che, come l’anno scorso all’improvviso, da dietro la collina dai cipressi in fila, potesse da un momento all’altro spuntare un temporale simile a quello dell’anno precedente, il quale pur lasciando cadere soltanto tre gocce d’acqua, ci tolse la gioia di andare alla tanto desiderata fiera, che per l’appunto era la prima Fiera del dopoguerra. Avevamo anche timore che mio marito (il quale doveva accompagnarci) non arrivasse; lui che era sempre puntuale e preciso, proprio quel giorno era in ritardo. Io già stavo pensando cosa poter dire alle mie bimbe per consolarle e anche a me stessa (che in quel momento mi sentivo bambina come loro) se per caso qualche ostacolo ci avesse impedito di andare alla Fiera. All’inizio vivere a Villa Francia (anch’essa malmessa e sinistrata) era stato difficile, ma poi giorno dopo giorno, mi ero lasciata avvincere da quel paesaggio luminoso, cangiante ad ogni stagione, dal parco verde, i grandi alberi, le violette, i ciclamini, dalla pace e da quell’amore grande, sconfinato che mi legava alla mia famiglia, ero felice ma… c’era anche il silenzio, silenzio… tanto silenzio. Quel silenzio, qualche volta riusciva a farmi sprofondare nella tristezza e nella nostalgia delle cose perdute, allora avvertivo dentro, una grande voglia di vedere gente vestita a festa, di udire voci rumorose e festose, di sentire musica allegra, canti e risate; la Fiera di Pontecchio offriva tutto questo; la Fiera di Pontecchio ti regalava per poche ore un altro mondo, ti rendeva la possibilità di constatare che non esisteva solo il tuo piccolo mondo, chiuso come una perla nella conchiglia. Quando finalmente mio marito arrivò, sul nostro viso comparve il sorriso. Tirai un sospiro di sollievo, poi in tutta fretta spedii via, lontano dalla mia testa ogni pensiero, ogni preoccupazione e delusione che, purtroppo, sempre, in qualsiasi momento della vita di ogni essere umano, risiedono pungenti e disturbatori. Quando fui certa di poter andare alla Fiera, ricordai che io avevo visto le rinomate Fiere di prima della guerra, cioè del 1940, 1941, 1942, 1943! Giorno funesto e famoso della storia del nostro paese, poi sentii dentro di me la gioia di poterci ritornare. Anche se l’immagine impallidisce col tempo, posso attestare che la seconda fiera del dopoguerra era sicuramente migliorata rispetto alla prima, ma non si poteva paragonare alle meravigliose Fiere di prima della guerra. Indubbiamente si notava la ripresa economica del paese, ma avevamo appena iniziato a curare la grande ferita che esso aveva ricevuto. . C’era gente, anzi c’era molta gente, allegra e vivace; l’amicizia è un sentimento bello da vivere; infatti notavo ad ogni passo gli incontri festosi tra amici, che forse si erano visti durante la guerra poi non più, strette di mano, esclamazioni gioiose, pacche sulle spalle accompagnate da allegre risate. Anch’io incontrai gente che non vedevo dal giorno tremendo in cui ci venne intimato di lasciare il rifugio. Ora tanto tempo è passato da quel giorno (11 novembre 1944), ma allora, lì alla Fiera, ognuno di noi conservava vivo nella mente ogni episodio (purtroppo sempre triste) del periodo passato in rifugio, ognuno di noi, almeno una volta aveva sfiorato la morte, in quei giorni tremendi; ma ora ricordo che quel giorno, in quel luogo festoso, abbiamo commentato ridendo e scherzando, eravamo lì, vivi, avevamo poco, ma era bello ricordare e raccontare.
La merce esposta era poca, ma quella che c’era, era interessante, era tutto bello ed attraente, sembravamo già ricchi, avrei voluto comprare tutto: i setacci, i tini, i canestri e i bigonci, mi limitai a comprare due cucchiai di legno, ricordando che quando cucinavo usavo un cucchiaio fatto da me con un pezzo di ramo verde e un coltello che tagliava poco (ancora lo conservo nel cassetto del tavolo di cucina, quando lo guardo mi fa tenerezza). In un angolo vicino al banco dei canestri, c’era un uomo che vendeva le cipolle, le offriva chiamandole “prosciutti dell’orto” mentre cantava una filastrocca buffa e divertente. Attorno all’unico banco che metteva in mostra una certa varietà di bigiotteria, facevano ressa le ragazze, che guardavano e ammiravano tutto quel bello, mangiandoselo con gli occhi: orecchini, anelli, collane e braccialetti; ad un tratto, una delle ragazze, lasciò il gruppo e mi venne incontro sorridente, mi abbracciò facendo una grande esclamazione di sorpresa per quell’incontro inaspettato; io la guardai stentando a riconoscerla, non vedevo più in lei la ragazzina magra, pallida e, anche se vivace e simpatica, quasi insignificante, che io avevo conosciuto durante l’ultimo anno di guerra sfollata in casa di conoscenti; notai come in poco tempo fosse esplosa il lei una giovinezza splendida, i folti capelli le incorniciavano il volto dai
lineamenti perfetti. “Guardi” mi disse “Guardi i miei capelli come sono ricresciuti in fretta…. Mi avevano rapato a zero appena finita la guerra”. Mi guardò sempre sorridendo poi aggiunse: “Oh! Ma loro non sapevano che io stavo con quel soldato, perché mi piaceva”. Abbassò gli occhi, poi disse tutto d’un fiato: “Anch’io piacevo a lui, ne sono sicura, mi scrive sempre dalla Germania e nelle lettere mi dice che presto verrà a trovarmi, mi vuole vedere’— Alzò gli occhi, alzò la voce poi mi disse ancora: “No, no, non c’entrava nella nostra relazione, né la politica, né la guerra, né lo spionaggio, eravamo due giovani innamorati l’uno dell’altro”. Io non risposi, non sapevo nulla di questa sua avventura che lei mi aveva raccontato con tanta spontaneità. La ragazza mi prese per mano e disse: “Venga, venga ad aiutarmi a scegliere una collana, la voglio comprare”. Andai con lei, ma non l’aiutai a fare la scelta della collana, dovetti salutarla, le mie bambine mi tiravano le mani per andare al banco dei giocattoli, attorno al quale volavano leggeri i palloncini colorati; sentii dentro una gioia infantile e per un attimo, rividi la mia infanzia. Non c’erano molti giochi sopra quel banco: bambolotti di pezza, armoniche a bocca, sonagli vari, tanti fischietti e qualche giocattolo in legno di tipo tirolese. Mentre i bimbi con i loro fischietti facevano un fracasso indiavolato, saltellando attorno, io fui attirata ad osservare un Pinocchio alto quasi mezzo metro, posto proprio in mezzo al banco, era molto bello, ben fatto, aveva gli occhi di vetro e la sua bocca ben disegnata, sorrideva a chi lo guardava; mi avvicinai per leggere un cartello che stava appoggiato ai piedi del famoso burattino. Sul cartello stava scritto che quel Pinocchio non era in vendita perché apparteneva ad un soldato italiano, il quale era riuscito a tornare dalla Russia e a portarsi a casa quel bel Pinocchio avuto in regalo da una ragazza russa, che l’aveva ospitato, nascosto e salvato. Avrei voluto saperne di più di questa bella storia romantica, ma l’uomo dei giocattoli parlava a stento la nostra lingua. Entrando nel cortile del Castello, ecco, subito a destra Marino Piazza, stava cantando, in dialetto, una canzone allegra dal titolo “Il valzer del contadino”. Il ritornello diceva così: “E quest l’è al velzer di cuntadein, suzezza, galein e turtlein. E quest l’è al velzer di pisuneint zivola, patet e piò gneint”. Attorno a lui la gente batteva le mani e rideva ad ogni sua battuta, che come sempre, era di una comicità incredibile. Udimmo il rullo di un tamburo, ci facemmo largo in mezzo alla gente e vedemmo un uomo vestito di rosso con in testa un cappello molto buffo, il quale mentre batteva su tamburo cantava un ritornello orecchiabile; poco distante da lui un orso vecchio e spelacchiato che aspettava di udire dalla voce imperiosa dell’uomo il solito comando: “Balla Orso! Balla orso!!. Allora lui si alzava reggendosi sulle zampe posteriori e ballava, saltellando in tempo del rullo del tamburo, quando tutti bat tevano le mani, l’orso portava una zampa vicino all’orecchio in segno di saluto; restava così fino a quando non sentiva il rumore delle monete che cadevano nel piatto posato per terra. In fondo al cortile del Castello un uomo e una donna suonavano musica da ballo, qualche coppia ballava in quel cortile in parte pavimentato a ciotoli, una coppia di sposi che io conoscevo, stavano ballando un tango, da far sbalordire per la loro bravura; dopo il tango i musicanti attaccarono con la famosa mazurca di Migliavacca; mi ricordo che un uomo mi si avvicinò e molto gentilmente mi chiese di ballare; io rimasi un po’ confusa, balbettai qualcosa per fargli capire che non sapevo ballare; non era vero, anch’io avevo ballato negli anni precedenti il mio matrimonio, ma … dopo tanto tempo… poi il mio stato di gravidanza, no non ebbi il coraggio di accettare, però mentre ascoltavo quella musica ed osservavo le coppie che ballavano, mi rammaricai, in quel momento fui veramente pentita di non aver fatto quattro salti a tempo di musica alla Fiera di Pontecchio. Accanto ai musicanti un omino con la barba invitava a partecipare al gioco dei dadi con le figure sulle facciate: ancora, cuore, picche, quadri, luna e fiore. L’omino con grande sveltezza e maestria mescolava i dadi nel bussolotto di latta, quando li scopriva in un attimo liquidava chi aveva vinto per aver puntato il simbolo, disegnato sul cartellone, le monete di chi non aveva vinto le tirava frettolosamente nel cassetto che stava sotto al tavolino; ricordo che anch’io puntai una moneta sull’ancora, vinsi, riprovai puntando sulla luna, purtroppo persi la moneta che prima avevo vinto; mi allontanai in fretta per paura di lasciarmi trascinare da quel gioco che promette fortuna, ma che poi non mantiene. Ecco, in fondo, prima dell’osteria, la donna col grembiule bianco che vendeva i gelati, essa affondava il cucchiaio di legno nella sorbettie ra e serviva frettolosamente i piccoli clienti che allungavano lieti la mano; erano i gelati del subito dopoguerra, gelati fatti di poco o nulla, forse: acqua, colore e poco zucchero, ma erano buoni. Oh! Com’erano buoni! La certezza di poter finalmente leccare un gelato, ti regalava una gioiosa soddisfazione. Alla Fiera di Pontecchio quell’anno vidi soprattutto: l’allegria, la gioia e l’amicizia; anche nella piccola chiesa odorante di incenso e cera, dove era esposta l’immagine della Madonna Addolorata (in quanto l’8 settembre viene venerata ovunque) la gente accendeva piccole candele, le cui fiammelle illuminavano visi sereni. Una nebbia leggera, passando davanti al sole, annunciò prossimo il tramonto ed anche la fine di un giorno che era riuscito a realizzare nel cuore di tante persone, la gioia e la speranza, come se esso fosse un’immensa miniera d’amore.
Cecilia Pelliconi Galletti