A proposito di scherzi, ne divenne famoso in particolare uno, fra i tanti che faceva ai contadini dei dintorni, e a Marchi, il vecchio Tognetto, in particolare. Ma questa volta la vittima fu Clara Corsini, che lavorava come lavandaia in villa, anche lei cresciuta in una delle numerose famiglie dei Prati.
L’episodio lo ricorda il nipote, Elio Masetti, oltre settant’anni, testimone anch’egli della vita marconiana: «La nonna ci raccontava spesso l’episodio del pollo resuscitato – dice – e sottolineava lo spavento che provò quel giorno, nella cucina della villa. Lei stava preparando il pollo già spennato, quando uscì dalla cucina per riempire un secchio d’acqua. Probabilmente in quel momento il signorino Guglielmo architettò uno dei suoi soliti scherzi: entrò in cucina, collegò dei fili elettrici alle zampe del pollo, poi si nascose certamente oltre la porta, nel corridoio d’ingresso e attese che la Clara tornasse in cucina. Quando mia nonna si avvicinò al tavolo e stava per metterlo nella casseruola, improvvisamete il pollo si mise a saltare sul tavolo come se fosse vivo e muoveva i muscoli delle zampe e la Clara si mise a urlare come una forsennata, piantò tutto e fuggì all’aperto gridando che il pollo morto era resuscitato!
Ricordando questo episodio, lo studioso marconiano Pietro Poli, come conferma Maurizio Bigazzi, precisò che Guglielmo aveva collegato i fili a un rocchetto di induzione che impiegava nel trasmettitore. Naturalmente Guglielmo Marconi corse fuori inseguendo la povera Clara che stava raccontando quanto era accaduto al custode, Antonio Marchi, il quale sorridendo le diceva che era stato uno scherzo del signorino, niente di più. Guglielmo, infatti, si era avvicinato per convincerla a rientrare in cucina, che il pollo era certo più morto che vivo! «Niente, la nonna non ne voleva sapere precisa Elio Masetti – Anzi, lei cominciò a dire che Marconi era proprio uno stregone e nessuno la convinse del contrario.
Ma c’è di più: in occasione di quello scherzo, Clara Corsini raccontava anche di aver assistito a una delle numerose stravaganze di Marconi, forse la più incomprensibile per tutti coloro che erano vicini al giovane Guglielmo. Ogni tanto, infatti, arrivava alla villa un carico di pentole di coccio che l’inventore faceva scaricare vicino alla casa di Marchi, in prossimità del bosco.
Il ‘birocciaio‘ era sempre lo stesso, Enrico Savini, che aveva inoltre l’incarico di scaricare le pentole di coccio e allinearle per terra, nel giardino di fianco alla villa e quindi riempirle d’acqua. Poi Marconi diceva a Savini di mettersi con l’orecchio a contatto con l’ultima pentola di questo lungo serpente di coccio mentre lui cominciava a infrangerle dall’altra estremità.
Evidentemente Guglielmo stava cercando di misurare l’intensità della propagazione del suono attraverso l’acqua contenuta nelle pentole di coccio e probabilmente queste prove si spiegano soltanto con il dubbio che le sue onde radiotelegrafiche attraverso l’aria venissero fermate dagli ostacoli.
Questo racconto proviene da una casa bolognese, dove cinque fratelli furono allevati da una vecchia e affezionata governante, che era appunto la moglie di Savini. “Si chiamava Rita – ricorda oggi Silvano Sereni – e questo episodio lo raccontava sempre quando l’argomento scivolava su Marconi. Tanto è vero che la Rita diceva sempre che il giovane Marconi doveva essere proprio matto, se trascorreva il suo tempo a spaccare pentole di coccio piene d’acqua”.
È comunque certo che questo episodio, secondo i ricordi di Clara Corsini, come afferma il nipote Masetti, si ripeteva frequentemente e aveva creato una seria preoccupazione in famiglia, tanto da far decidere il padre Giuseppe di portare il figlio Guglielmo a Bologna per una accurata visita medica. «Ma non è soltanto per questo strano comportamento che il padre di Guglielmo si decise a interpellare una medico di Bologna – aggiunge un altro testimone del tempo, Alfonso Franceschini, nipote di quel Franceschini che prese il posto di Marchi quale custode del Griffone, intorno ai primi anni del Novecento. Ci fu anche la questione delle lastre di zinco e di rame sotterrate di fianco alla villa e anche giù all’osteria si parlava e si sussurrava che il giovane Marcorni fosse un po’ matto e oltre a spaccare pentolame sugli alberi, girava per il boschetto a fare buchi per terra e nel prato dietro la villa, dove sotterrava appunto lastre di zinco e di rame, insomma si comportava in modo strano. Basta dire che qui ai Prati e a Pontecchio la gente diceva: “Cal ragaz, l’é propri mat“. Infine il padre Giuseppe lo portò per ben tre volte a Bologna da tre specialisti e quando ritornò in villa, Giuseppe si fermò qui ai Prati e tutti volevano sapere che cosa avessero detto quei medici: non ci crederà, ma al padre dissero di lasciarlo fare e di assecondarlo, di non badare a quello che potevano insinuare intorno su Guglielmo, che dicessero pure che era un po’ matto ma aveva la fortuna di possedere un’intelligenza superiore!».
Quei medici non avevano sbagliato! E quando Guglielmo Marconi, già scienziato affermato, intorno agli anni Trenta, ritornava al Griffone, non dimenticava mai di gettare uno sguardo nel boschetto di fianco alla villa, dove fino a pochi anni fa si potevano ancora trovare, tra l’erba del sottobosco, i cocci di quelle pentole che egli spaccava tra gli alberi. D’altra parte, i suoi ricordi erano così vivi e sempre così intensamente rivissuti con la memoria, che la prima visita che egli faceva tornando a Pontecchio era per il vecchio custode Franceschini. «Si sedeva in cucina- ricorda il nipote Alfonso Franceschini – il nonno gli serviva l’immancabile bicchiere di Malvasìa o di Pignoletto e mi prendeva in braccio per farmi i consueti complimenti. Per me, bambino di circa sei, sette anni, era come se lo sentissi uno di famiglia, mi aveva visto nascere lì dentro quella casa, a pochi metri dalla villa».
Non a caso, ancora oggi, i bambini che nascono a Pontecchio e nei dintorni del vecchio casone dei Prati (che è stato purtroppo demolito, nda), portano tutti i nomi della famiglia Marconi: da Degna a Gioia a Elettra, da Guglielmo a Giulio e Alfonso.
Un modo diverso, più a misura d’uomo, una fedeltà antica nel mantenere acceso un ricordo, frammenti di un’epoca che forse fa rimpiangere il passato.
Tratto da “I Giorni della Radio” edito nel 1994 di Giorgio Maioli Storico della Tecnica