di Pierluigi Perazzini
Un nostro concittadino illustre
Che la famiglia del celebre pittore nella prima metà del Seicento abbia posseduto beni nel territorio di Sasso Marconi, e più esattamente nell’antica comunità di S. Martino di Battidizzo, è cosa nota e risaputa; è invece assai meno conosciuto quanto quelle stesse proprietà abbiano potuto influire e condizionare la vita dell’uomo e dell’artista. Molti studiosi si sono occupati della biografia del celebre pittore, in particolare il Malvasia che lo conobbe e lo frequentò, mentre altri hanno ricordato “la Quiete”, la sua bella villa che ancora oggi impreziosisce le pendici di Monte Mario e le altre sue proprietà in quei paraggi; tuttavia una verifica sui documenti ha evidenziato che la storia di questi possessi è stata riportata con imprecisioni ed errori. Ho deciso quindi di ripercorrere i fatti che portarono il pittore a Sasso Marconi, e a rimanere legato a questa terra fino alla sua morte, cioè per oltre cinquant’anni.
Come ho detto esistono diverse biografie di Francesco Albani alle quali rimando per avere precise notizie della sua vita e soprattutto sulla sua lunga carriera artistica, ma nel ripercorrere la storia dei suoi possedimenti di Battidizzo non posso esimermi dal tracciare un suo pur breve profilo (1). Francesco nasce a Bologna il 17 marzo 1578 da Agostino ed Elisabetta Torri. Famiglia benestante quella degli Albani: il padre possedeva un filatoio sul Canale di Reno dove lavorava con profitto la seta; una casa in città ed un podere con casa padronale a Olmetola di Borgo Panigale rendevano tranquilla la loro vita. Agostino si aspettava che i figli seguissero le sue orme professionali, ma la sua morte (1590) sarà causa di scelte assai diverse: Domenico, il primogenito, intraprenderà la carriera curiale e la professione d’avvocato, Francesco invece darà sfogo alla sua vocazione artistica cominciando a frequentare la bottega bolognese del pittore fiammingo Dionigi Calvaert. È in questo ambiente che il giovane Francesco conoscerà Guido Reni, più vecchio di lui di soli tre anni, e con il quale stringerà amicizia. Nel 1595 Guido abbandona lo studio del Calvaert per quello dei Carracci e, a distanza di poco tempo, Francesco, prendendo occasione da una reprimenda del Calvaert lo segue. La scuola dei Carracci e l’influenza del Reni trovano terreno fertile in quel giovane, che nel giro di pochi anni dimostra di avere grandi capacità tecniche e una feconda creatività artistica. Sul finire del secolo Francesco ha già al suo attivo diversi lavori in Bologna sia in affresco, che su tavola. Nel 1601 decide di recarsi a Roma, dove già lavorava Annibale Carracci che lo vorrà con sé nella decorazione della cappella di S. Giacomo degli Spagnoli e in altri importanti lavori. Terminata la collaborazione col Carracci, Francesco troverà occasioni per ulteriori prestigiosi incarichi che in pochi anni gli daranno fama e ricchezza.
Anche Domenico, il fratello, che a Bologna aveva intrapreso la carriera di causidico (avvocato) e notaio, è riuscito a far fortuna; la sua preparazione e le sue capacità lo avevano introdotto ben presto nel Gotha bolognese dove era diventato amministratore fiduciario dei patrimoni di importanti famiglie; dal 1603 pure Giovanni Agostino, il fratello minore, esercitava con profitto la professione di notaio.
La Querciola
I fratelli Albani, oramai ricchi e affermati nelle loro rispettive professioni, decisero di investire i guadagni in una impresa agricola: la Querciola (o Querzola), un corpo di beni posto per la maggior parte nel Comune di Battidizzo. L’atto di compravendita venne stipulato il 10 novembre 1607 (2); si trattava della formalizzazione di una scrittura privata redatta il 14 agosto dell’anno precedente con la quale don Marcello Lambertini, canonico della Metropolitana, si era impegnato a vendere ai fratelli Albani tutti i terreni di Battidizzo e di Pulega (3) che gli erano pervenuti nella divisione dell’11 settembre 1603 con il senatore Giulio Cesare, suo fratello, e la signora Antonia Malvezzi.
La Querciola era una notevole tenuta, composta da diversi poderi e parecchi appezzamenti boschivi, ma anche da un molino sul Reno e dall’esercizio della barca, cioè del diritto esclusivo del trasporto di persone, animali e cose da una riva all’altra di quel tratto del Reno. Per il pagamento di quei beni Domenico, oltre a sborsare una discreta cifra in contanti, si fece carico di saldare certi debiti e alcuni censi di don Marcello e gli assegnò in pagamento anche il filatoio di famiglia che gli Albani avevano “dietro Reno” (4). Nell’atto è specificato che Domenico Albani comprava per sé e per i signori Francesco e Giovanni Agostino, suoi fratelli, pro-indiviso.
Prima del giugno 1609 Francesco tornò a Bologna per poco tempo, quindi di nuovo a Roma, dove si ammogliò con Anna Rusconi, una giovane romana che morì 1′ 11 giugno 1614 nel dargli alla luce una figlia, Elisabetta. Il fratello Domenico, che amministrava i beni di famiglia, non mancò di esercitare pressioni affinchè Francesco tornasse a Bologna e si risposasse, ma Francesco tornò definitivamente a Bologna solo nel 1616, assieme alla figlia, che mise nel Monastero della Santissima Immacolata Concezione (5). A Bologna Francesco dopo qualche tempo si risposò con Doralice Fioravanti, una brava donna bolognese dalla quale avrà un gran numero di figli (6).
Gli affari gli vanno bene, le sue pitture sono richieste e ben pagate, quindi assieme ai fratelli investe ulteriori capitali nell’impresa di Battidizzo: viene costruita la villa padronale e la cappella (7), vengono messi a coltura vari appezzamenti e fatte ulteriori compere di terreni e boschi in Battidizzo, di un molino a Mugnano e di terreni e case nella comunità di S. Lorenzo di Castel del Vescovo. Insomma, come dice il Malvasia, i fratelli Albani spesero ingenti capitali «in necessarii non meno che utili ristoramenti di case, bonificamenti de’ poderi, che a’ medesimi pure rimaner dovevano; e nelle superbe delizie della Querzola, che un giorno ceder non dovevano alle rinomate ville di un Frascati, d’un Tivoli. Ma non si potea però negare, che quest’ultima appunto non fosse la pietra dello scandalo, scoprendosi ogni dì di più quella un’occulta voraggine, che tutto assorbiva nel condurvi acque scaturienti, e perenni, forar di dentro, e trapassar monti, spianar colli, alzarvi abitazioni. ergervi officine, fondarvi molini, standone poi nell’esecuzione di tutto, più all’altrui consiglio, rapporto, e perizia, che alla propria soddisfazione, e gusto … » (8). Il 10 agosto 1646 Domenico Albani muore lasciando, oltre ad una fornitissima biblioteca, un asse ereditario carico di debiti, infatti Francesco scoprirà che il fratello era stato tanto bravo ad amministrare i patrimoni dei suoi clienti, quanto incapace a gestire quelli della propria famiglia (9). Una grave crisi economica colpisce quindi Francesco che per far fronte ai tanti debiti dovette vendere il casino e il podere di Olmeltola (10), non solo, ma per venirne fuori senza perdere anche la tenuta di Battidizzo dovrà accettare lavori anche di poco conto e sarà costretto a continuare a lavorare fino a tardissima età. Francesco Albani muore il 4 ottobre 1660 all’età di 82 anni, lasciando eredi i suoi figli maschi Domenico e Lorenzo: Domenico si era fatto notaio, Lorenzo invece seguiva perlopiù la campagna dove abitualmente risiedeva. Lasciava anche due femmine: Ginevra, nubile, e Anna, che aveva accasato nel 1656 con Giacinto Giglioli, un mercante che si dilettava di pittura (11).
Domenico Albani morì a breve distanza di tempo (l’ultimo giorno del mese di ottobre 1663) e dopo poco (il 7 dicembre dello stesso anno) morì, a Battidizzo, anche Lorenzo, il quale col suo ultimo testamento dell’ 11 novembre 1663 aveva nominato eredi usufruttuarie la madre Doralice Fioravanti Albani, e la giovane Ginevra, sua sorella. Instituì invece suoi eredi universali proprietari i figli nati da Anna, l’altra sorella moglie del Giglioli, e quelli che Ginevra potrebbe avere nel futuro contraendo legittimo matrimonio (12).
Il 29 febbraio 1664, venne stilato l’inventario legale dell’eredità di Lorenzo Albani, ma ben presto ci si rese conto che censi, debiti, e legati gravavano troppo, quindi gli eredi, previo un accordo tra loro, decisero di alienare l’intero corpo di beni di Battidizzo, Pulega, Mugnano e Castel del Vescovo. In particolare Doralice Fioravanti Albani e Ginevra Albani rinunciarono all’usufrutto, mentre Giacinto Giglioli, come padre e legittimo amministratore dei suoi figli minorenni, che per effetto del testamento erano diventati i legittimi proprietari, a nome e per loro conto, il 6 marzo 1664 stipulò un privato atto di vendita col conte Odoardo Pepoli, vendita che venne formalizzata il 21 giugno del medesimo anno (13). Il senatore Odoardo Pepoli, forse per sottolineare il cambiamento di proprietà, o fors’anche per capriccio, cambiò subito nome alla tenuta: non più Querciola, ma Quiete, e volle godere della quiete e delle delizie di questi luoghi proprio in quella villa che per il pittore, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, era diventata motivo d’inquetudine e di costante preoccupazione economica. I Pepoli si riservarono l’uso della casa padronale, dei giardini e del parco, affittarono invece l’intera impresa agricola, diedero in concessione la barca e il molino e continuarono a possedere questa tenuta fino al giugno del 1695 quando un nipote di Odoardo, Cornelio Pepoli, vendette ogni cosa ai Caprara (14). Ma quella è tutta un’altra storia ….
Tratto dalla rivista semestrale “al sâs” N.14
edita dal gruppo di ricerca storica “DIECI RIGHE”