Il calzolaio di Borgonuovo
Allo scoppio della prima Guerra Mondiale Emilio aveva sei anni, giusto l’età d’andare a scuola. E a scuola andò, infatti, per qualche settimana. Sua madre gli aveva cucito una borsa di pezza, con la stoffa ricavata dalle parti sane di un paio di pantaloni smessi. Il ragazzino la riempiva con l’abbecedario, un quaderno e una matita, se l’infilava a tracolla e via di corsa per il sentiero che portava alla scuola di Mongardino.
Ma il tempo della vendemmia arrivò presto. Gli uomini erano al fronte, sull’Isonzo, a combattere contro gli Austriaci. L’uva era matura e anche un bambino era capace di staccare un grappolo alla volta e metterlo dentro al cesto, perché le vigne del tempo erano tenute molto basse. Emilio abbandonò la scuola e non ci tornò più, perché dopo la vendemmia ci fu da raccogliere le castagne, poi da affastellare i sarmenti prodotti dalla potatura delle viti: i tralci tagliati andavano composti ordinatamente in fascetti che venivano legati con un ramo di salice, trasportati a spalla fino a casa, ammucchiati nel cortile e usati settimana dopo settimana per scaldare il forno per cuocere il pane. In mille modi i bambini potevano rendersi utili nelle famiglie contadine di quel tempo. Attingere un fiasco d’acqua alla sorgente, andare per i prati a raccogliere cicorie selvatiche per nutrire i conigli, correre nella vigna ad avvertire i lavoratori che il pranzo era pronto in tavola, badare alle galline che non entrassero nei campi di grano maturo e tante altre incombenze compatibili con le loro forze. Nella famiglia contadina c’era lavoro per tutti: giovani e vecchi, grandi e piccoli, uomini e donne.
A guerra finita il padre di Emilio tornò a casa e si trasferì con la famiglia a Moglio, dove pure c’erano ottimi vigneti da coltivare. Emilio aveva ormai dieci anni, ma il lavoro del vignaiolo non gli piaceva. Suo padre, allora, lo affidò a un calzolaio di Casalecchio, perché gli insegnasse il mestiere. Emilio partiva presto alla mattina, attraversava i vigneti, i campi di grano e di trifoglio che coprivano le colline degradanti dalla chiesa di Moglio e arrivava puntuale alle otto nella bottega del calzolaio, guadagnandosi giornalmente il pranzo di mezzogiorno con il suo lavoro.
Si sedeva al deschetto e seguendo le indicazioni del maestro, batteva il cuoio centimetro per centimetro, confezionava lo spago con sette, nove, undici fili a seconda delle cuciture in programma. Imparò ad usare la pegola senza impiastricciarsi troppo le mani, a forare il cuoio con la lesina nei punti giusti, a tirare con forza equilibrata lo spago perché le cuciture fossero solide e resistenti, a piantare le bullette nei tacchi e nelle suole secondo il disegno che il maestro segnava con la matita.
Dopo un paio d’anni sapeva fare bene tutte queste cose. Rimaneva la parte più difficile dell’arte del calzolaio: prendere la misura del piede, scegliere fra le tante il paio di forme in legno più adatto per quel piede, correggerle ove necessario con sottili ritagli di vecchie tomaie, ritagliare con il trincetto le suole dalla schiappa del cuoio, rifilare con perizia “al sparadel“, preparare la colla, montare il tutto e cucire punto dopo punto la suola alla tomaia.
Sotto l’occhio esperto del maestro calzolaio Emilio imparò tutto e a diciott’anni si senti pronto per mettersi in proprio. Salutò il maestro e cominciò a lavorare in casa di suo padre per le famiglie contadine che abitavano sulle colline di Moglio. A ventun anni aiutò la famiglia a comperare un lotto di terreno nel fondovalle, in via Borgonuovo, si costruì una casetta insieme al fratello muratore e si sposò. Nella nuova casa aveva una piccola stanza riservata a laboratorio. Ma la maggior parte del lavoro lo svolgeva lontano da casa. Le famiglie contadine allora erano composte di molte persone e il calzolaio doveva provvedere a riparare le scarpe vecchie e a cucirne delle nuove per tutti i piedi. Nelle famiglie più numerose vi restava anche per due settimane abbondanti. Lavorava dall’alba al tramonto e consumava i pasti alla loro tavola. L'”arzdour” gli faceva trovare tutto pronto: una sciappa di cuoio, le tomaie di misura per i piedi da calzare a nuovo, una pelle di vacchetta, gomitoli di spago, i chiodi, le bullette e i ferri da inchiodare sui tacchi e sulle punte delle scarpe dei ragazzi, se no quelli ti consumavano un paio di scarpe nuove in quattro settimane.
Il calzolaio doveva possedere in proprio tutti gli attrezzi necessari al lavoro, più la pece e la colla. La parte più voluminosa erano le forme in legno, quattro o cinque paia legate a catena con uno spago, portate a cavallo di una spalla sopra lo zainetto che conteneva tutto il resto: trincetti, lesine, martello, punteruoli, boccole, pinze, ecc. Il pezzo più pesante era il “diavolo”, un blocco di ferro a tre branche terminanti in tre suole di dimensioni diverse. Posato sulle ginocchia ci si infilava la scarpa per piantarvi i chiodi.
Durante la seconda Guerra Mondiale Emilio fu richiamato alle armi per ben quattro volte. Poiché aveva moglie e una figlia da mantenere, dopo qualche mese lo congedavano. Poi lo richiamavano, lo ricongedavano e così via, come in un gioco a rimpiattino. L’ultima volta fu mandato a Vipacco, in Jugoslavia. In data 4 Luglio 1943 scrive alla moglie (per mano di un commilitone): “… Ricordandomi di quelle scarpette che tu sai, se le dai alla vedova, per meno di 25 lire non darle“, anche lontano da casa, in pericolo di vita sul fronte di guerra, il suo pensiero va alle scarpe, tanto è connaturato in lui il mestiere.
L’8 settembre 1943 l’esercito Italiano si sfasciò ed Emilio, come tanti altri soldati, tornò a casa. Riprese il suo lavoro e a guerra finita, si costruì una nuova casa in via Moglio, solo per la sua famiglia. A piano terra destinò una bella stanza a laboratorio, con una porta a vetri che dava sulla strada. I passanti lo vedevano sempre seduto al suo deschetto, perché un poco alla volta abbandonò il lavoro a domicilio e a partire dagli anni sessanta, l’ambulante non lo fece più. La gente ora preferiva comprare le scarpe nuove nei negozi di città e si rivolgeva ad Emilio solo per risuolature, soprattacchi e riparazioni varie.
Ma intanto Borgonuovo si ingrandiva, gli abitanti aumentavano e al calzolaio il lavoro non mancava. Lavorava dalle sei del mattino alle dieci di sera. Ogni tanto usciva sulla strada a prendere una boccata d’aria e a scambiare qualche parola con i passanti. Riservava la domenica mattina per lavoretti extra: riparare un pallone da calcio, una cintura, una borsa… Servizievole sempre, parlava volentieri con tutti, ma la sua vita era lì: il deschetto, la moglie, la figlia.
Nel lungo corso della sua vita lavorativa ebbe un solo apprendista, il nipote Mario, il quale dopo qualche anno abbandonò la lesina per andare a lavorare alla Cartiera del Maglio.
Dopo i sessant’anni si fece anche bottegaio: vendeva pantofole, ciabatte, sandali, stringhe… ma commerciare non gli era congeniale. Cedette perciò il negozio alla figlia Vandina e continuò a fare il ciabattino fino a quando la morte lo colse nel 1985.
Dino Betti