e la tessera del pane

sinistra: Augusto, Gino, Pia Sandrolini e Maria Ceccoli.
(foto di Corrado Sandrolini)
Il 26 luglio 1943 Canon della Mirandola ci gridò un saluto dalla strada. Stavamo ammucchiando il fieno nel campo “Di là dal cimitero”. Rispondemmo al saluto con un “Ehilà!” e un gesto della mano. Canon saltò la siepe e si avvicinò. “Vengo da Tolè, dove ho saputo che ieri il re ha cacciato Mussolini e ha affidato il Governo al generale Badoglio.” “Tu dici che le cose cambieranno, ora?” chiese mio padre. “Questo non lo so. Forse cambieranno, forse continueranno ad andare come prima, cioè male. Ma la notizia mi pare importante e ho voluto darvela.” “Lo bevete un bicchiere di vino?” chiese mia madre, “abbiamo la bottiglia al fresco, nel rio qui vicino.” “Un bicchiere di buon vino non si rifiuta mai.” Bevve, salutò e se ne andò. Tornando a casa dal campo papà mi disse: “Chissà se Canon ha detto la verità o ci ha raccontato una balla. Non si è mai sicuri se quello dice il vero o il falso. Dopo cena vai all’osteria e senti se ne parlano.” All’Osteria del Mulino, la più frequentata nei giorni feriali, c’era Cerchione il muratore che si beveva il suo mezzo litro seduto a un angolo di una lunga tavola. Sul lato opposto stavano seduto Fredo e Miglio, due contadini che amavano chiudere la lunga giornata di lavoro sfidando una coppia a briscola. La posta era, manco a dirlo, una bottiglia di vino. Mi sedetti a un tavolo vicino, ordinai un sacchetto di brustolini che sgranocchiai lentamente. Entrò Rimondi, un venditore ambulante dalla parlata toscana. “Che si fa festa o si piange stasera?” Salutò così. “Stiamo a-a-aspettando una c-coppia per la br br-briscola,” disse Fredo che balbettava un po’, “poi chi vvince fa festa e chi perde pia-pia-piange.” “Ma, “un sapete la notizia, allora. Mussolini è caduto.” “Si è fatto male?” domandò Cerchione sollevando uno sguardo per nulla preoccupato. “Sarà caduto dalla trebbiatrice mentre faceva il pagliaccio….no, volevo dire il paglierino,” fece Miglio con un impercettibile sorriso sulle labbra. “L’ho visto in un manifesto alla fiera di Vergato. Torso nudo, un mannello di spighe in mano, lo sguardo in avanti, invece che verso a bocca del cilindro dove avrebbe dovuto infilare le spighe.” Dall’uscio della cucina si mostrò l’oste, orbo da un occhio che aveva perso sul Carso nel 1916, in uno scontro alla baionetta con i soldati austriaci. “Il Duce non è più il capo del Governo. Il re lo ha licenziato e ha messo al suo posto il generale Badoglio.” “E adesso che succede?” chiese Miglio. “Mah,” riprese l’oste, “nel 1917, dopo la sconfitta subita a Caporetto, il Governo cacciò Cadorna e nominò al suo posto il generale Diaz che ci condusse alla vittoria.” “La vi-vi vittoria… con la vi-vittoria cosa si vince?” domandò Fredo. “Vittoria? Qui finisce che si perde tutto, anche la nostra casa. “Un sapete che gli inglesi hanno già conquistato tutta la Sicilia?” disse Rimondi con espressione improvvisamente rattristata.

Mentre tornavo a casa pensavo a quello che avevo letto nei libri di scuola: Mussolini grande uomo…, tutto il mondo ci invidiava un capo così…Colui che guidava la Nazione verso i più alti destini. Si doveva dominare l’intero Mediterraneo – Mare Nostrum – comprese le porte d’accesso: Gibilterra e il Canale di Suez… “E adesso che succede?” Questa domanda di Miglio mi risuonava nella mente senza che sapessi trovare una risposta.
La caduta di Mussolini non ebbe particolare risonanza a Vedegheto. In piazza alla domenica Paste disse: “Mort un pepa fat un eter Grand e gros cum l’era cl’eter” E parve che tutti si accontentassero di questa sentenza.
Preoccupava di più l’obbligo di consegnare all’ammasso tutto il grano, salvo lo stretto ma molto stretto necessario per la famiglia. Luglio e agosto erano i mesi della trebbiatura e le autorità comunali mettevano un uomo al seguito della trebbiatrice, in divisa fascista prima, in abiti borghesi dopo il 25 luglio per controllare. A casa nostra si trebbiò a metà luglio. Un militare mandato da Savigno, stretto nella camicia nera e nella divisa grigioverde, dentro la quale doveva morire dal caldo, si fece portare una sedia e si sedette vicino alla basculla dove il peso dei sacchi veniva calibrato: centouno chilogrammi, un quintale netto. L’occhiuto militare non si distraeva mai: impossibile sottrarre qualche sacco al suo taccuino, dove li annotava uno per uno. A lavoro finito disse: “Sono novantun quintali. Quanto ve ne serve per la semina?” “Circa sei quintali”, rispose mio padre. “E lei signor Franceschini, possiede solo questo podere?” “Sì, solo questo.” “Quanti siete in famiglia?” “Io, mia moglie e tre figli.” “Cinque persone. Due quintali a testa fa dieci quintali. Novantuno meno sei fa… ottantacinque che diviso a metà dà… quarantadue e mezzo. Tolto il consumo per la famiglia restano trentadue quintali e mezzo che lei ci deve consegnare. Si presenti al direttore dell’ammasso con questo foglio dove sta scritto tutto.” Allungò il foglio al padrone poi si rivolse a mio padre. “Il numero dei componenti della vostra famiglia?” “Siamo in sette” “Sette per due… quattordici, quarantadue e mezzo meno quattordici fa… ventinove e mezzo…” “No”, lo interruppe mio padre, “fa ventotto e mezzo”. “E io ho detto ventotto e mezzo. Volete che non sappia fare i conti io?” E la sua faccia già scostante al naturale, si fece fosca, minacciosa. “Prendete questo foglio, avete sentito cosa dovete fare.” “Mio padre, previdente, aveva pensato in anticipo a mettere da parte un po’ di grano. In un bastone delle dimensioni del matterello per la sfoglia aveva messo, dalla parte opposta all’impugnatura, una dozzina di “punte di Francia” piantate a metà. Quando scaricavano i covoni nella casella picchiava col bastone chiodato sulle spighe che si sgranavano un po’. Sul pavimento in cemento restava il grano mescolato alla pula. Con movimenti sapienti impressi a un crivello alla sera il grano veniva ripulito e messo nei sacchi. Ne riempimmo sette. Al padrone dicemmo quattro, così a lui ne andarono due, a noi ne restarono cinque. Chi non lavorava la terra riceveva la tessera del pane e poteva comprare solo la quantità fissata da quelli dell’ Annona. Appariva giusto, quindi, che venisse fissata una quota anche per i contadini. In teoria forse era giusto, ma a noi due quintali non bastavano. C’era Genovino che all’uscita dalla messa si avvicinava a uno di noi e diceva: “Il prete dice che dobbiamo partecipare alla funzione del pomeriggio. Io vorrei esserci, ma se vado a casa ci metto un’ora, le mie gambe si stancano e non ce la faccio più a tornare”. ”Venite da noi a mangiare un piatto di minestra, così vi risparmiate il viaggio di andare e tornare”. Non se lo faceva ripetere due volte. Pareva un po’ tonto, anzi, lo era, ma sull’invito a tavola non equivocava mai. Succedeva quasi tutte le domeniche. E che bocca! C’era Paste, l’unico vecchio di Vedegheto a godere di una piccola pensione che gli arrivava ogni mese della Svizzera, dove aveva fatto il minatore per alcuni anni. Viveva da solo in una stanzetta d’affitto. Non aveva parenti. Entrava in casa nostra e si sedeva accanto al focolare. “Se resto nella mia stanza perdo l’uso della parola. Qui almeno c’è sempre qualcuno per chiacchierare.” Se cominciava a raccontare della Sgvizzera, come diceva lui, non la finiva più. Giungeva l’ora di cena e si sedeva a tavola con noi. Succedeva spesso. E c’erano i mendicanti che giravano di casa in casa a chiedere l’elemosina. Casa nostra stava sulla piazza, era la più frequentata. Non bussavano, non dicevano “fate la carità”. Si fermavano fuori dalla porta e recitavano una preghiera.
“Pater noster, qui es in coelis….” “Ave Maria, grazia plena, dominus tecum…” “C’è un poveretto alla porta, dagli un tocco di pane,” diceva la nonna. Un “tocco” era un quarto di pagnotta, di quelle belle pagnotte da un chilo che cuocevamo nel forno una volta alla settimana. Se diceva: “Di pane ne ho già un bel po’ nel sacco”, allora gli si dava una fetta di formaggio, oppure un uovo. Se capitavano all’ora di pranzo venivano invitati a sedersi a tavola. Non ringraziavano, ma dicevano: “Dio ve lo rimeriti in Paradiso.” Se arrivavano verso sera chiedevano alloggio: nella stalla d’inverno, nel fienile d’estate.
A settembre, puntuale ogni anno, arrivava la Germana, una lontana parente della nonna. Una donna in gamba sui sessant’anni. Restava un mese perché amava vendemmiare. Il resto dell’anno viveva non si sa dove. Nemmeno il suo nome vero conoscevamo. In gioventù aveva vissuto alcuni anni in Germania, perciò la chiamavano Germana. E da ultimo, ma non ultimi, i pulcini della nonna. In primavera ne allevava tre o quattro covate. Per farli crescere bene, sani e belli si doveva nutrirli col grano. Potevamo andare a raccontare al signorino dell’Annona tutte queste cose? Meglio il bastone chiodato di papà.
testo di Dino Betti
tratto dal periodico “Sasso & dintorni” tredicesima edizione
del Circolo Filatelico “G. Marconi”

amici addetti al trasporto dei covoni di grano.
(foto di Corrado Sandrolini

al tempo della mietitura del grano nel podere
Piè di Sasso di Sopra. (foto di Corrado Sandrolini)