Quando conoscenti e amici gli chiedevano che cosa facesse «cal mat ed Marconi», «quel matto di Marconi», Antonio Marchi scuotendo la testa non rispondeva, oppure si limitava a dire che non sapeva nulla di nulla o che erano tutte storie quelle che si raccontavano in giro, come quella delle mucche, lì intorno, che avevano smesso di fare il latte perché le antenne di Villa Griffone attiravano troppa elettricità! Ma le voci si rincorrevano, si moltiplicavano, rimbalzavano di collina in collina e la storia delle mucche senza latte arrivò al Sasso e riuscì a infilarsi anche per la strade di Bologna.
Anche Adelmo Landini, che era nato a Sasso e che fu marconista di Guglielmo Marconi per tanti anni, a bordo dell’Elettra, ricorda in un suo libretto di memorie che in quegli anni si diceva che passando sotto Villa Griffone si udisse il fragore delle scintille, e che i contadini, di notte, vedevano spesso bagliori violacei uscire dalla finestra del laboratorio. «Si cominciava a parlare di cose misteriose che si facevano lassù, – raccontava Landini – e i vecchi sussurravano già di streghe e di diavoli che si davano convegno al Griffone e che da lì, bisognava passare al largo!».
Più tardi Marconi, ricordando le esperienze passate, un giorno disse a Landini: «Probabilmente se fossi vissuto nel Medioevo, in quegli anni mi avrebbero bruciato vivo!». Ma per il giovane Guglielmo non esistevano problemi di sorta: continuava a seguire la strada che gli indicava l’estro, la fantasia, la ferma convinzione di avere tra le mani il proprio futuro. E aveva ragione. Aveva soltanto vent’anni, ma in lui c’era già un insieme di rassegnazione e incontrollabile ira, di tolleranza e caparbietà, di apparente indifferenza e sottile perspicacia: insomma, un vero conflitto caratteriale, però condito da un’intelligenza superiore. Ma sapeva anche essere dolce: che cosa c’è di più dolce in un figlio che sveglia la madre a mezzanotte di una calda serata estiva e l’accompagna, facendo luce con una candela, su per le silenziose scale della villa fino in soffitta per farla assistere alla grandiosità di uno dei suoi primi esperimenti: un tasto battuto tre volte, i tre punti della lettera esse, il brillare delle scintille e il lieve gracchiare del martelletto del ricevitore a distanza di quattro metri. Erano i momenti magici della nascita della telegrafia senza fili. Ecco che da quella estate 1894, non era più il solo Antonio Marchi a mantenere il segreto di un’invenzione ancora in embrione, ma anche la madre. Una madre che divenne ben presto una complice e la strenua difesa eretta contro la protervia del padre che fino in fondo non credeva in quell’esile figlio che al di fuori dei confini di Villa Griffone era considerato un giovane pieno di stranezze, dedito a esperimenti in cui c’entravano i fulmini e i tuoni, roba da maghi o da stregoni.
Tra Guglielmo e la madre Annie correva una corrente di affetto e di reciproci segreti svelati, piccole, grandi cose che fanno sentire un ragazzo al riparo da ogni manifestazione ostile. La presenza della madre Annie, irlandese ma di lontana origine scozzese, ebbe negli anni della pubertà di Marconi un peso notevole nella sua formazione anglosassone, tanto è vero che nei pochissimi mesi in cui Guglielmo frequentò scuole pubbliche, quasi tutti i compagni lo sentivano più inglese che italiano, anche nel modo di leggere. Fu questa esperienza, associata ai frequenti spostamenti tra Bologna, Livorno, Firenze e l’Inghilterra, a creare i presupposti degli studi e delle lezioni private. D’altra parte Villa Griffone era dotata di una cospicua biblioteca, quindi i libri non mancavano certamente. E fu proprio questo rapporto diverso tra un giovane e la propria istruzione a far nascere in Guglielmo una forte avversione per lo studio in generale, che non fosse quello specificatamente scientifico: cominciò a studiare profondamente la vita di Beniamino Franklin, ma fino al momento in cui a Livorno non si avvicinò alla materia scientifica che più gradiva, rimase sempre distaccato dai libri.
Si entusiasmò ed ebbe le maggiori soddisfazioni quando un certo professor Vincenzo Rosa gli impartì lezioni private sull’elettrofisica. Aveva appreso, inoltre, una manualità sorprendente, che gli servì più tardi per costruire da solo tutti quegli apparecchi che poi, con il fedele Antonio Marchi, avrebbe collaudato nella soffitta e nei campi di Villa Griffone. E fu proprio a Livorno che imparò l’alfabeto Morse: fu un vecchio telegrafista cieco, che aveva conosciuto per caso, a insegnarglielo, dopo che ebbe saputo che il giovane Marconi si interessava attivamente di elettricità e dei problemi connessi. Marchetti, infatti, conosceva i sistemi in uso nella telegrafia via cavo e usava gli apparecchi che poi usò Guglielmo nei suoi primi esperimenti. Provato dall’ansia di approfondire gli studi di elettricità, lasciando da parte qualsiasi ramo dello studio che non fosse quello che lo interessava maggiormente, il giovane Guglielmo deperiva giorno dopo giorno e si chiudeva sempre più frequentemente nelle due stanze del suo laboratorio che la madre Annie gli aveva messo a disposizione nel secondo piano della villa. Ed è proprio di questo periodo, tra il 1894 e il 1895, forse il più importante per la vita di Guglielmo, che ci resta un documento fino ad oggi inedito sui rapporti tra Guglielmo Marconi e Antonio Marchi, sui momenti decisivi degli esperimenti effettuati e sulla loro realizzazione, e sui contatti che ebbe il giovane Marconi con Augusto Righi, quando il già affermato scienziato bolognese veniva a soggiornare durante l’estate sui colli di Paderno, al di là del Reno e proprio di fronte a Villa Griffone.
Tratto da “I Giorni della Radio” edito nel 1994 di Giorgio Maioli Storico della Tecnica