Ce n’erano tanti una volta, ma questo è il “nostro” conte perché ha fatto parte della vita dei miei genitori in un momento che definirei magico per tutte le persone: quello della loro gioventù. Perciò tramite i ricordi e i racconti fatti in casa anch’io senza averlo mai visto ho conosciuto un po’ di quel personaggio e soprattutto il mondo che gravitava intorno a lui.
Per la cronaca si chiamava Antonio Galeazzo Malvasia della Serra Gabrielli e possedeva una tenuta che comprendeva monte Mario, monte del Castellaccio e monte dei Gnocchi. Della tenuta facevano parte: la Portineria, la Guardiola (dove alloggiava il guardiacaccia), e sette poderi, l’Orto, la Torretta, Ziano, Pulga, la Cà Nova, il Castellaccìo, i Boschi.
Poi naturalmente c’era la villa padronale in cima a monte Mario: villa Quiete. Mia madre, Augusta Rossi, abitava con la sua famiglia alla “Torretta”: venivano da Jano dove i capostipiti Rossi Domenico (detto Mingarèn) e Rossi Giovanni (Zanarèn) si divisero perché le relative famiglie erano diventate troppo numerose.
Mio padre invece proveniva dal Ferrarese: laggiù il conte possedeva un’altra tenuta dove viveva mio nonno, ma avendo bisogno di qualcuno di fiducia qui a Sasso lo richiamò con tutta la famiglia alla villa Quiete e più tardi lo sistemò alla “Portineria” (detta “barriera”). II conte Malvasia parlava sei lingue. Come tutti i nobili teneva molto al saluto dei suoi subalterni e chi sgarrava veniva licenziato; tuttavia amava stare con la gente del popolo. Alla villa viveva anche la madre del conte: “…era buona, regalava i cioccolatini ai bambini e ogni anno a Pasqua donava un paio di sandali e una scatola di “Scorza Majani” alle bambine Rossi che la scortavano fin su alla villa ogni volta che arrivava alla tenuta (scalze d’estate! solo d’inverno c’erano le scarpe, o la domenica quelle di tela…) “. II conte e la contessa Elena (la chiamavano tutti così anche se il conte non la sposò mai) ebbero un bambino: Riccardo (Ninni). Mia madre a 11 anni fu chiamata alla villa per accudirlo e farlo giocare: “…fu una grossa fortuna per me, invece di lavorare nei campi come i miei fratelli e sorelle, feci tanti viaggi con loro: a Rimini, Nizza, Milano, nella Puglia per le battute di caccia perché il conte, come molti nobili, n’era appassionato e portava il figlio con sé per farlo gareggiare. E poi a stare con persone istruite ho imparato tante cose!…”.
La villa Quiete per i contadini che abitavano nei fondi era un mondo fantastico: c’erano i daini e i fagiani. Il 18 agosto, per sant’Elena, la villa e il giardino si riempivano di lumini veneziani e c’erano i fuochi d’artificio.
Quanti ricordi e quanti nomi tornano alla mente! La cuoca Cesira, la Maria grassa che serviva a tavola, la Maria piccola che curava il guardaroba, l’autista Beccantini, la Nina (viveva a Ziano, I’attuale ristorante Oasi, e a detta di molti era la ragazza più bella della tenuta), il tuttofare Marchesini, Pozzi il guarda-caccia, Negroni il fattore, Raffaele: Rafflèn, l’amico del cuore di mio padre, con il quale ne combinava di tutti i colori.
Mia madre stava a villa Quiete tutto il giorno con il bambino, mio padre portava il Corriere della Sera al conte e poi si fermava lì: a forza di vedersi si sono innamorati!
I tragici avvenimenti successivi, relativi alla seconda guerra mondiale, fecero fuggire i miei genitori, che nel 1942 si erano sposati, a Bologna: prima di abbandonare la loro terra seppellirono ai “Boschi”, vicino a villa Quiete, mobili, vestiti, vettovaglie, lettere e fotografie; ma a guerra finita quando tornarono a prenderli non trovarono più nulla: qualcuno più misero e povero di loro si era preso tutto.
Arrivarono a Bologna su un carretto, l’amministratore del conte riuscì a sistemarli in uno stanzone del palazzo che i Malvasia possedevano in Via Zamboni. Erano in tanti, tutti sfollati “…era tutto tesserato, noi però non soffrimmo mai la fame, grazie a un cugino del nonno che era un trafficone … portava sempre a casa un po’ di carne che io dividevo fra tutti i parenti…”. Nel dopoguerra i miei vissero a Bologna, ma una volta l’anno in primavera il nonno portava me e mio fratello a prendere il treno; arrivati a Sasso attraversavamo il ponte Albano (a quei tempi ancora col fondo in legno) e facevamo visita a tutti i conoscenti che abitavano ancora nella tenuta.
Poi nel corso degli anni vi furono enormi cambiamenti: la costruzione dell’autostrada del Sole, la divisione e la vendita dei poderi “… se ci fosse il conte che ci teneva tanto alla sua terra! Si rivolterà nella tomba” diceva mia mamma.
Dopo la morte del nonno nel 1958 le visite a Sasso divennero sempre più rare fino a quando negli anni ’70 siamo venuti ad abitare a Borgonuovo ma quando al martedì si andava in paese al mercato i miei raramente ritrovavano visi noti “… è cambiata la gente, non conosciamo più nessuno … “, in realtà era semplicemente passata una generazione. Certo che il pezzo di terra di cui ho parlato in 80 anni ha subìto una gran trasformazione e…ultimo colpo al cuore: il traforo di monte Mario! Ma si sa il progresso non si ferma ed è giusto che sia così: a me rimane il ricordo di ciò che era un tempo quella terra e la gioia di sapere che i miei genitori ci vissero, nonostante i disagi e la povertà dei tempi, in serenità.
Anna Baravelli Santandrea