II giorno 2 ottobre 1943 era un sabato, ricordo che quella mattina mi si presentò grigia e piovosa, veramente autunnale. Ebbi dispiacere, perché in quel giorno io dovevo andare in paese, cioè a Sasso Marconi, per riscuotere il sussidio all’ufficio postale, in quanto mio marito era richiamato alle armi. All’improvviso, nel primo pomeriggio, come per un miracolo che solo la natura può fare, il grigiore se ne volò lontano, trasportato da un vento gradevole, il quale trasformò il clima in una giornata splendida di sole. Sembrava aprile, quindi anche se la tristezza in quel periodo regnava dentro al mio cuore, quel cielo colmo di luce, mi fece salire sulla bicicletta con l’animo sereno. Mi diressi pedalando verso Sasso Marconi, la strada era deserta, ma ciò che la circondava mi sembrò tutto bello, il paesaggio pianeggiante, del podere Scaletto, era pittoresco, sembrava un arazzo dai colori verde e giallo, steso sull’erba. Attraversai il ponte Albano, mentre il sole a quell’ora conferiva all’ambiente qualcosa di magico. A metà ponte lasciai cadere come il solito, sull’acqua limpida che scorreva sotto, un foglietto dove avevo scritto un saluto per la mia gente, che avevo lasciato laggiù in pianura, là dove accanto a loro, protetto dagli argini, scorreva lo stesso fiume Reno. Mandai uno sguardo alla Rupe, che come sempre si ergeva maestosa. Dopo aver sentito raccontare la tragica sventura, mista a leggenda, successa la notte di San Giovanni, nel giugno del 1892, quel masso duro mi incuteva soggezione. Mi pareva che lei fosse la vera sovrana del paese, forse i cittadini di Sasso Marconi, amavano e temevano allo stesso modo la Rupe così dura e così bella. Anche i campi che
costeggiavano via della Stazione erano sgargianti e le foglioline secche volavano a mulinello nell’aria.
Dopo aver terminato l’operazione all’ufficio postale, continuai il breve tratto per arrivare alla piazza, appoggiai la bicicletta al muro della chiesa, poiché era mia intenzione entrare a pregare, mi girai e vidi la signora Adriana Menarini, davanti al suo negozio di alimentari. Essa mi salutò sorridendo, ed io andai da lei per ricambiare il saluto. Commentammo gli ultimi avvenimenti poco rassicuranti del conflitto, poi l’Adriana mi disse che da qualche giorno transitavano per via Porrettana, molte camionette dell’esercito tedesco; mentre ci rendevamo conto, che stavamo attraversando un periodo di timori e angosce, si avvicinò a noi, una giovane di nome Augusta Capelli che conoscevamo molto bene, sia lei sia i suoi genitori abitavano nella casa di proprietà di Duccio Mingardi in viale Nuovo. Augusta era una bella ragazza, aveva gli occhi belli e grandi dall’espressione infantile, era allegra, la sua figura lieve era distinta e gli abiti che lei indossava erano sempre ingentiliti, da un fiore d’organza, o da un nastro di velluto, che davano all’insieme, un qualcosa di affascinante, Augusta era una ragazza di natura dolce, delicata e simpatica. “Vado nei pressi della Rupe a prendere alcune piantine di ciclamini, che voglio mettere
nei vasetti della mia terrazza”, disse, facendoci vedere la palettina e il sacchetto per le piante. “Sono quasi fiorite” aggiunse “II loro colore è rosso vivo…. Sono bellissime!” precisò, andandosene. “Vado e torno.” aggiunse ancora sorridendo e agitando una mano, per un breve saluto. Noi osservammo, la figura armoniosa della giovane allontanarsi a passo svelto verso la Rupe.
Andai in chiesa, avrei voluto recitare il Rosario, ma consapevole che non potevo fare tardi, decisi per una breve visita. La poca luce che filtrava dalle finestre, mi fece desistere dall’inoltrarmi, rimasi in fondo. Dopo un po’ la luce tenue di alcune candele presso l’altare maggiore illuminarono con discrezione la figura del parroco, don Ernesto Cavara, seduto sopra ad una panca vicino all’altare, con la corona del Rosario fra le mani. Mi portai avanti, udii il sussurro delle Ave Marie, mi avvicinai alla balaustra, sentii il desiderio di unirmi a lui nella recita del rosario, ma il suo sguardo era fisso al tabernacolo, non mi vide, non mi notò, non sentì che io pregavo assieme a lui, era talmente assorto da non potersi distogliere. Terminai le ultime orazioni dopo il Rosario, poi uscii.
Appena fui fuori dalla chiesa, l’Adriana mi venne incontro con le mani giunte, poi col respiro affannoso disse: “Un camion dell’esercito tedesco ha investito l’Augusta… era là, nella strettoia della Rupe, non so come sia successo… Mi hanno detto che forse non è grave… Ora l’hanno portata qui a casa in viale Nuovo… Ma la porteranno in ospedale… Speriamo che gliela possa fare”. Non ebbi parole per rispondere. “Vado a vederla” dissi dopo un po’; presi la bicicletta e andai alla casa in viale Nuovo. L’Augusta era là nel giardino, stesa sopra ad un materasso, la mamma era in ginocchio accanto a lei che le bagnava la fronte con un panno ed insisteva, accarezzandola, che doveva assolutamente andare in ospedale. La ragazza ripeteva in continuazione con voce appena percettibile, che non voleva andare all’ospedale a Bologna, aveva paura dei bombardamenti. “Portatemi a Vergato… portatemi a Vergato” implorava rimanendo immobile. C’era altra gente che accorreva per soccorrere, o per solidarietà. lo non ebbi il coraggio di avvicinarmi; i miei pensieri confusi si mescolarono ad un ultimo raggio di sole, che chiudeva un giorno, colmo di chimere e illusioni. Il mattino dopo, Domenica 3 ottobre 1943, come il solito mi recai alla S. Messa nella mia parrocchia, cioè alla chiesa di Vizzano. Appena giunta sul sagrato, ho sentito le voci dei presenti che commentavano la morte di Augusta Capelli, avvenuta durante la notte, all’ospedale di Vergato. Rabbrividii… Chi può misurare i battiti del cuore in certi momenti? Quella notizia mi fece sprofondare in una grande tristezza. Come sbarazzarsi di una notizia tragica inaspettata? Avevo parlato con lei alcuni momenti prima dell’incidente, rividi il suo sorriso smagliante, nel cenno di un arrivederci. Destino crudele con le ali cattive, perché sei piombato su di lei? L’amarezza che lasciano queste vicende dolorose, non passa mai.
Non andai al funerale, seppi che l’avevano tumulata qui nel cimitero di S. Lorenzo, anche se loro avevano la tomba di famiglia in un paese in provincia di Ravenna. Il padre di Augusta era impiegato all’Ufficio Dazio di Sasso Marconi, la mamma era una modista e lavorava per un negozio di cappelli per signora. Un giorno mi feci forza e l’andai a trovare. Era vestita di nero dalla testa ai piedi, gli occhi erano gonfi, era pallida, magra, distrutta. “Non sarò mai più la donna di prima, il tempo non riuscirà a cancellare nulla di quello che è stato” disse. “Lei è con noi” aggiunse. “Guardi” disse ancora, indicando una parete tappezzata dalle fotografie della figlia, in mezzo alle quali aveva appeso degli angioletti dorati che lei stessa aveva fatto. “lo vivo perché Dio mi ha allungato la sua mano, viviamo perché lei ci protegge. “Parlammo sempre e solo di lei, della sua fresca bellezza, la quale per nostra consolazione … la sua angelica beltà, sarebbe rimasta in eterno”.
Non so dove i coniugi Capelli avessero trascorso il periodo degli ultimi mesi di guerra, cioè dal novembre 1944 all’aprile 1945; non ebbi notizie di loro. Dopo qualche giorno dalla fine della guerra, la signora Capelli venne a salutarmi dove io ero profuga a Bologna. Non l’avevo più rivista da quel giorno che ero andata da lei. II grande dolore per la perdita della figlia e i patimenti degli ultimi mesi di guerra, l’avevano resa irriconoscibile; vestiva ancora di nero, il fazzoletto legato sotto alla gola, gli occhi erano sempre dolci e belli, ma il gonfiore sotto, mi fece comprendere che ovunque avesse passato quel tempo lei aveva continuato a piangere la sua bambina (come spesso la chiamava) e che il dolore di una mamma non si estingue mai.
“Nella mia mente c’è sempre lei” disse, mostrandomi il medaglione con la fotografia di Augusta che portava appeso al collo. Mi abbracciò poi disse: “Ora andiamo a casa, in Romagna. Partiremo domani, viene anche lei con noi. La guerra non l’ha lasciata dormire in pace. Le bombe a Sasso Marconi, hanno distrutto molte tombe, anche quella della nostra bambina è stata danneggiata, ma siamo riusciti a sistemarla intatta, ora andiamo a casa. Mia
madre e mio padre, sono rimasti soli, mio fratello è stato ucciso in questi giorni per motivi politici”. Ci abbracciammo ancora, essa mi strinse le mani. “Ti auguro di avere sempre con te per tutta la vita le tue bimbe” disse, guardandomi negli occhi. Se ne andò, il suo camminare era lesto, ondeggiante e malsicuro, il suo corpo piegato e la testa bassa, la faceva sembrare una vecchia mendicante. Un’amara tristezza mi strinse il cuore; in quel momento mi passarono davanti agli occhi le lacrime di tutte le mamme che avevano perso i loro figli a causa di chi è assetato di violenza e sterminio. Voci festose inneggiavano alla fine della guerra, battimani di gente che speravano in un ancora incerto futuro. Mentre sul rosso orizzonte si stagliava nitido il sole che chiudeva anche questo giorno, io adagiai nella culla della memoria questo episodio, così nel lungo sentiero della mia vita ogni tanto è riaffiorato il ricordo della giovane Augusta Capelli.
Cecilia Pelliconi Galletti